Preservazione della fertilita e tumore. Nel 2010 si stima che 1,5 milioni, tra uomini e donne, hanno ricevuto una diagnosi di tumore. Circa il 10% aveva meno di 45 anni e l’1% meno di 20 anni. Quindi una discreta fetta degli ammalati di tumore era giovane. Nei soggetti di entrambi i sessi è emerso che la preoccupazione per la propria fertilità era rilevante. Infatti, circa tre quarti degli uomini e delle donne alla diagnosi di tumore aveva un’età < a 35 anni, senza figli al momento della diagnosi oncologica, ma con il desiderio di averne in futuro. L’81% degli adolescenti con tumori maligni insieme al 93% dei loro genitori erano interessati al problema del preservazione della fertilità negli ammalati di tumore. Nel giugno 2006 l’American Society of Clinical Oncology ha pubblicato le linee guida per orientare gli oncologi nella consulenza ai malati di tumore rispetto al problema della preservazione della fertilità. In quel contesto un gruppo di esperti ha convenuto che qualsiasi oncologo, in contatto con pazienti fertili che stanno per iniziare una terapia oncologica, deve affrontare il problema della potenziale infertilità indotta dal trattamento prima di iniziare la terapia.
Una revisione della letteratura sulla preservazione della fertilità, compresa tra il 1987 e il 2005, ha confermato la scarsità di studi randomizzati di grandi dimensioni, fornendo informazioni prevalentemente derivate da studi di coorte, serie di casi, piccole sperimentazioni cliniche non randomizzate e case report. I metodi più efficaci per la preservazione della fertilità erano la crioconservazione degli spermatozoi nei maschi e degli embrioni nelle femmine. Vi era consenso sul fatto che gli oncologi dovessero discutere con i pazienti di infertilità, come di un rischio potenziale della terapia e come le opzioni terapeutiche orientate a preservare la fertilità si correlano con le probabilità di successo del trattamento oncologico, con il rischio di complicanze perinatali o materne, e con la salute della prole. Infine di come è raccomandabile indirizzare i pazienti a specialisti di terapia della riproduzione unitamente a un supporto medico psicologico.
Dopo alcuni anni dalla loro pubblicazione e nonostante queste linee guida siano state progettate per aumentare la consapevolezza e a influenzare la pratica clinica, una serie di indagini hanno dimostrato significative discrepanze nel comportamento degli oncologi rispetto alle raccomandazioni. Infatti, in alcuni gruppi di oncologi studiati, solo il 47% inviava di routine i propri pazienti con tumore in età fertile ad un endocrinologo specialista in problemi della riproduzione, mentre in altri contesti il 95% degli oncologi dichiarava di discutere abitualmente con i pazienti il problema dell’effetto che il trattamento poteva avere sulla loro fertilità. Solo il 39% li inviava poi ad uno specialista in medicina della riproduzione. Identico atteggiamento era rilevabile nella conservazione dello sperma, con il 91% degli oncologi d’accordo su quanto si sarebbe dovuto offrire agli uomini idonei, ma solo con il 10% dei medici che dichiarava di averlo fatto realmente.
I Mayo Clinic Proceedings hanno pubblicato una rassegna sulle strategie di conservazione della fertilità negli individui con tumore e sulle criticità connesse a questo problema di crescente attualità in oncologia.
Preservazione della fertilità. L’effetto potenziale dei trattamenti oncologici sulla fertilità
La letteratura disponibile quantifica il rischio di infertilità attraverso i tassi di azoospermia e amenorrea, indici surrogati di infertilità. Nei maschi, la spermatogenesi e la steroidogenesi testicolare sono eventi post-puberali, mentre in fase pre-puberale ci sono solo cellule germinali primordiali, sensibili alla tossicità, senza spermatociti maturi. In questa fase la perdita di tutte le cellule germinali primordiali determina azoospermia permanente. In fase post-puberale il maschio produce da 100 a 20 milioni di spermatozoi al giorno e le cellule germinali mantengono nel tempo una capacità mitotica persistente e tale da produrre spermatozoi fino in età avanzata. Al contrario le cellule germinali dell’ovaio subiscono una rapida moltiplicazione mitotica in utero, con un picco a 6-7 milioni di oogoni raggiunto a 5 mesi di età gestazionale e seguito da una perdita significativa per apoptosi delle cellule germinali, per questo solo 1-2.000.000 di ovociti sono presenti alla nascita. Anche se esiste consenso sul fatto che la terapia del tumore può provocare sterilità, non ci sono dati sufficienti per identificare il rischio di ciascun agente e/o regime terapeutico a causa della complessità delle variabili in gioco. Gli effetti della chemioterapia e della radioterapia sulla fertilità dipendono dai farmaci impiegati individualmente, dalla dimensione e posizione del campo di radiazione, dalla dose complessiva, dall’intensità di dose, dal metodo di somministrazione, dal tipo di neoplasia, dall’età, dal sesso e infine dalla condizione di fertilità pre-trattamento del paziente. Gli agenti alchilanti, come la ciclofosfamide, sembrano presentare il maggior rischio di insufficienza ovarica, probabilmente perché non sono specifici del ciclo cellulare e possono danneggiare gli ovociti, anche “a riposo”. L’odds ratio per L’induzione a una completa insufficienza ovarica dell’esposizione della ciclofosfamide ha un odds ratio = 3,98 rispetto a quello di pazienti non esposti. Le donne più anziane sono più sensibili al danno ovarico permanente dopo chemioterapia con esposizione a esposte a ciclofosfamide, methotrexate e 5-fluorouracile (95% nelle donne > 40 anni vs 61% nelle donne < 40 anni). Ugualmente in giovani maschi adulti sopravvissuti a linfoma di Hodking la fertilità era correlata ai farmaci utilizzati e alla dose cumulativa. Dopo 6 cicli di chemioterapia, con procarbazina, vincristina e mostarda azotata (agente alchilante) il rischio di infertilità era del 90%, in gran parte a causa di azoospermia. Mentre l’incidenza di azoospermia era solo del 33% per un regime alternativo, privo di agenti alchilanti, con adriamicina, bleomicina, vinblastina e dacarbazina. Con la radioterapia la perdita permanente di ovociti si ha per una dose letale mediana (LD 50 ) < 2 Gy, mentre la spermio genesi può essere compromessa da dosi di radiazioni >1,2 Gy . Anche per la radioterapia le variabili critiche sono l’età (i pazienti più giovani sono meno esposti al rischio rispetto a quelli più anziani) e il campo di irradiazione (total body, campi addominali, pelvici e spinali aumentano il rischio di insufficienza gonadica).
Preservazione della fertilità. Opzioni per preservare la fertilità
Per i maschi in fase pre-puberale la schermatura delle gonadi durante la radioterapia può essere utile, ma solo per campi selezionati. La crioconservazione di tessuto testicolare è ancora sperimentale e i potenziali usi futuri includono la maturazione in vitro degli spermatogoni in spermatociti o il trapianto di cellule germinali nel tessuto testicolare. I pazienti ed i loro genitori devono essere informati che questa tecnologia è ancora in fase di sviluppo.
Per i maschi in fase post-puberale, la preservazione della fertilità con crioconservazione degli spermatozoi dopo la masturbazione è un metodo consolidato ed efficace. Si consiglia di effettuare 3 raccolte con un intervallo di 48 ore e prima dell’inizio della terapia a garanzia dell’integrità del DNA degli spermatozoi. I campioni possono essere conservati integri per decenni.
Per le femmine in fase pre-menarca è al momento disponibile la crioconservazione del tessuto ovarico, ma è da considerarsi sperimentale per le difficoltà nel recupero utilizzo di ovociti immaturi. Questa tecnica comporta la rimozione chirurgica parziale o totale delle ovaie, seguita da dissezione della corteccia ovarica che contiene i follicoli immaturi. Le strisce di tessuto sono poi crioconservate. Nella maggior parte dei casi, la chirurgia può essere eseguita con una procedura ambulatoriale laparoscopica, ma i rischi di complicanze chirurgiche e dell’anestesia generale devono essere discusse con la paziente e i suoi genitori. In seguito i potenziali utilizzi del tessuto comprendono l’autotrapianto nella pelvi o in un sito eterotopico con l’ovulazione naturale o stimolata, seguita dalla raccolta di ovociti per la fecondazione in vitro. Un’altra tecnica attualmente in fase di sviluppo è la maturazione in vitro di follicoli ottenuti dalla corteccia ovarica. In tutti questi casi si impone un attento giudizio clinico sulla probabilità di reintrodurre cellule neoplastiche con il tessuto nativo. Per alcuni tumori in cui è prevista la sola radio senza chemioterapia, le ovaie possono essere chirurgicamente trasposte al di fuori del campo di irradiazione.
Per le femmine in fase post-menarca è disponibile la stimolazione delle ovaie con gonadotropine, seguita dalla crioconservazione di ovociti o embrioni. Questo processo si basa sulla tecnologia della fecondazione in vitro, applicata con successo crescente da più di 30 anni. Una preoccupazione teorica per le donne con tumore ormone-sensibile, come nel cancro della mammella, è che i livelli di ormone soprafisiologici per la stimolazione ovarica con gonadotropine possano aumentare il rischio di recidiva. Alcuni ricercatori hanno risposto con protocolli che combinano la tradizionale stimolazione ovarica con agenti che abbassano gli estrogeni, come gli inibitori dell’aromatasi, nel tentativo di attenuare i livelli di estrogeni elevati. I risultati sul rischio di recidiva sono promettenti, anche se sarà necessaria un’osservazione più prolungata nel follow up.
Gravidanza dopo terapia oncologica
Diversi studi hanno dimostrato che la gravidanza dopo trattamento del tumore mammario non sembra influenzare negativamente la recidiva o la sopravvivenza. Non è noto il momento ottimale per tentare il concepimento dopo il completamento delle terapie oncologiche. La raccomandazione prevalente è di aspettare almeno 2 anni dopo la conclusione delle terapie ipotizzando che dopo questa finestra temporale, il rischio maggiore di recidiva sia passato. Per le donne in terapia ormonale (es. tamoxifene) si consiglia di aspettare 5 anni per consentire il completamento della terapia ormonale. Un altro problema di molti malati di cancro è se la prole esposta agli agenti citotossici ha un aumentato rischio di difetti alla nascita. Diversi studi di grandi dimensioni che includevano più di 4000 figli di sopravvissuti al tumore non hanno mostrato alcun aumento statisticamente significativo di tumore maligno della prole o malformazioni genetiche.
In conclusione i pazienti oncologici………………….
dovrebbero essere informati che la preservazione della fertilità è una disciplina emergente con diversi interrogativi aperti. Tra questi è rilevante la valutazione dei rischi a lungo termine derivanti dalla conservazione della fertilità. I dati di follow-up attualmente sono limitati, ma quelli disponibili indicano che i risultati e la sopravvivenza non si modificano nei pazienti che si sono sottoposti a procedure di preservazione della fertilità. Inoltre va tenuto in considerazione che in alcuni pazienti l’elevato rischio di ricaduta è legato essenzialmente all’età, fattore determinante sulla mortalità a lungo termine. Infatti, un grande studio retrospettivo condotto su 200.000 donne con tumore della mammella ha dimostrato che quelle con età < ai 40 anni avevano il 39% in più di probabilità di morire rispetto alle pazienti più anziane. Perciò è etico raccomandare la preservazione della fertilità con queste conoscenze sulla prognosi generale? Inoltre, quando un paziente è troppo malato per prendere in considerazione la conservazione della fertilità, chi decide? Infine, chi è eticamente responsabile della preservazione della fertilità in pazienti minori malati di tumore e a che età dovrebbe essere discussa la conservazione della fertilità? Quesiti aperti e di grande stimolo per nuovi studi e riflessioni etiche sul paziente oncologico.
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